Diciottesimo capitolo del nostro romanzo a puntate dedicato alla vita e alla formazione enologica di un lavoratore e bevitore.
Zeno Raboso si trovava a Milano da un paio di giorni per un problema tecnico in un grosso ospedale. Erano state giornate campali, di duro lavoro e poco tempo libero per lo svago. Così, non appena ebbe concluso l’intervento, Zeno decise di rientrare a casa, senza indugiare nella tentacolare e caotica città. Fremeva dal desiderio di ritornare alle dimensioni a lui più consone, strade più tranquille, edifici più bassi, il bar in piazza.
Del resto, pensò, a Milano non ci sono cantine e vigneti, tanto valeva ripartire subito. In realtà ricordava di aver letto su qualche rivista che in pieno centro avevano riportato alla luce la vigna di Leonardo Da Vinci, di oltre cinquecento anni. Sicuramente interessante, ma a Zeno solo l’idea di affrontare il centro di Milano fece venire un tale mal di testa, che preferì caricare il furgone per il rientro in Veneto.
Era già in tangenziale, quando il suo cellulare squillò. Era Anacleto, il capo. Lo chiamò per informarlo che la sua trasferta non era finita, ma anzi raddoppiava! C’era un guasto nella sede del Parco Nazionale delle Cinque Terre. Zeno sospirò e ovviamente eseguì gli ordini, facendo inversione di marcia. In cuor suo, oltre a imprecare, si chiedeva come fosse possibile che una piccola ditta come quella di Anacleto fosse in grado di accaparrarsi tutti quei lavori in giro per l’Italia. Allo stesso tempo, però, pensò che comunque era il suo lavoro, che doveva solo ringraziare per averlo e per ricevere uno stipendio più che dignitoso. Senza dimenticare che spesso visitava dei luoghi bellissimi.
Alle Cinque Terre non c’era mai stato, non sapeva nemmeno uno dei cinque nomi, ricordava solo vagamente che erano collegate da un suggestivo Sentiero degli Innamorati, ma che sicuramente non era roba per lui. Certo, era innamorato di Ester, ma questi riconoscimenti espliciti all’amore lo mettevano sempre in crisi e gli davano pure fastidio.
In Liguria era andato solo due volte in vita sua, da ragazzo. Una volta era stato a Genova, a novembre del 1991, poco prima delle Colombiadi e dell’inaugurazione del famoso acquario. L’aveva trovata una città affascinante e magica, con quel suo contrasto tra la luce del mare e l’ombra dei caruggi interni. Un’ambientazione degna dei racconti e dei disegni di Corto Maltese, che Zeno leggeva spesso in quella fase adolescenziale. Da bambino era stato invece a Ventimiglia, al confine con la Francia, a trovare uno zio. Quella terra di frontiera gli sembrava esotica e quando andò a Montecarlo gli sembrava addirittura di essere dentro a un film. E comunque l’elemento fondamentale rimaneva il mare, un mare bello ma vigoroso, blu e profondo.
Zeno sarebbe arrivato a destinazione per ora di cena, anche prima forse, sicuramente ancora con una bella luce per godersi la spettacolare vista da Manarola, dove avrebbe dormito presso un affittacamere. Il lavoro era previsto per il giorno successivo e Zeno apprezzò molto questo approccio decisamente più rilassato del solito, l’esatto opposto dello stato di frenesia e urgenza che accompagnava sempre i suoi interventi.
E alla fine ci arrivò Zeno, alle Cinque Terre, uno dei posti più belli d’Italia, di quelli che meritano di essere visti almeno una volta nella vita. Cinque piccoli borghi affacciati sul mare e arrampicati sulla costa, disposti in processione lungo la Riviera di Levante.
Manarola è il borgo più piccolo, ma probabilmente anche il più bello insieme con Vernazza. Zeno alloggiava in pieno centro storico e arrivò alla struttura a piedi dopo aver parcheggiato il furgone appena fuori la zona pedonale. La sensazione era quella di trovarsi in un luogo sospeso, fuori dal tempo. Era tutto semplicemente incantevole e a dimensione d’uomo. Dopo il traffico di Milano e le colonne di mezzi pesanti in autostrada, a Zeno non sembrava vero di ritrovarsi calato in una realtà così idilliaca. Lasciò le sue cose in camera e scese subito in strada. Erano appena le sette della sera e c’era ancora una luce intensa e calda. Vide dall’altra parte della strada un'enoteca e si precipitò subito all’interno alla ricerca di un vino tipico della zona. Gli versarono un bianco fresco locale, accompagnato con una golosa focaccina. Mentre sorseggiava il vino, la sua attenzione cadde su due signori abbastanza attempati che parlavano fra loro in maniera piuttosto animata. Il locale era molto caratteristico, con il fronte che dava sulla stradina in pavé e il retro che si affacciava con una grande vetrata sull’immensa distesa del mare.
Lì, tra sole, vento, acqua e roccia Zeno sentiva i due signori che stavano parlando di un loro amico che stava probabilmente passando un brutto momento. Stavano discutendo se, in certe circostanze, convenga essere più Ulisse o più Achille. Se sia meglio cioè agire in modo razionale e scaltro piuttosto che con coraggio e spregiudicatezza. A Zeno sentire parlare così venne una gran curiosità, ma allo stesso tempo pensò, per restare in tema, che fossero affermazioni di una incoerenza ciclopica rispetto alla realtà, troppo facile accampare teorie psicologiche su problemi altrui col bicchiere in mano. Però i due tizi si accorsero che Zeno li stava osservando e gli fecero un cenno di brindisi. Zeno ricambiò e istintivamente si avvicinò con lo sgabello e si presentò.
L’improvvisato trio si rivelò incredibilmente affiatato, parlarono di usanze venete e modi liguri, di repubbliche marinare e di guerre mondiali, continuando a sorseggiare ottimi bicchieri di vino, quando a un certo punto ordinarono Sciacchetrà per tutti, il nobile passito delle Cinque Terre. E raccontarono a Zeno la leggenda della sua origine: un tempo gli abitanti delle Cinque Terre erano divisi e in lotta fra loro. Decisero di rivolgersi a un saggio eremita per chiedergli come poter risolvere l’insanabile conflitto. Questi suggerì ai cinque capi villaggio di portare ciascuno dell’uva, con la quale venne realizzato un vino così buono che mise d’accordo tutti, sancendo la pace. Era proprio lo Sciacchetrà, dal nome così onomatopeico (forse) e dall’origine così manichea (forse).
(continua)
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