Quarantacinquesimo capitolo del nostro romanzo a puntate dedicato alla vita e alla formazione enologica di un lavoratore e bevitore
Zeno Raboso era sempre stato attratto dal fuoco. Sin da bambino gli erano piaciuti sia la luce che il calore provocati dalle fiamme. In casa, come in tutte le abitazioni della campagna veneta, era cresciuto con la stufa a legna in cucina. Chiamata anche "cucina economica", la stufa rappresenta da sempre nella Pianura Padana il cuore caldo della casa. Funge da forno per cuocere e riscaldare le vivande e, nello stesso tempo, fa da termosifone, emanando un calore intenso e asciutto.
Zeno rimaneva sempre incantato davanti alla bocca della stufa tutte le volte che veniva aperta per ricaricare la legna da ardere. In quei frangenti ne approfittava per cacciare dentro la porticina della stufa tutto ciò che poteva essere bruciato. Confezioni di carta vuote, fogli di brutta copia, gusci di noci. E rimaneva lì a contemplare il fuoco che si alimentava e divampava. Per Zeno era un passatempo e un modo per smaltire qualche rifiuto, anche se ogni tanto si faceva prendere la mano e buttava sul fuoco oggetti plasticosi che emanavano puzza e fumo.
Poi c'erano i fuochi all'aperto, nei campi, che erano opera di suo papà quando doveva bruciare le sterpaglie derivate da potature e pulizie del cortile. Erano tempi in cui, più o meno, queste cose si potevano ancora fare, dando fuoco ad alte pire che Zeno si divertiva a sfidare, avvicinandosi il più possibile per provare a spostare un pezzo di legno senza bruciarsi. Di fuochi all'aperto in campagna se ne vedevano spesso. C'era sempre qualche vecchia sedia rotta da eliminare, delle cassette o dei ceppi troppo grossi e duri per tagliarli in pezzi adatti alla stufa.
A Zeno tornò in mente una scena successa una trentina d'anni fa. Era con suo padre e stavano bruciando un po' di legna di risulta in cortile. Era l'inizio di marzo, le giornate di stavano allungando e l'aria iniziava a profumare di risveglio primaverile. Però faceva ancora freddo, era tardo pomeriggio, e si stava bene vicino al fuoco.
Zeno e suo papà avevano lavorato tutto il pomeriggio ed erano stanchi. Zeno aveva quindici anni. Suo papà gli disse di aspettarlo, poi andò in cantina. Tornò con una bottiglia e due bicchieri. Era un verduzzo, un tipico vino bianco delle terre bagnate dal Piave. Leggero, secco, un po' mosso e fruttato, con un retrogusto aromatico di salvia.
Era la prima volta che bevevano un bicchiere insieme, padre e figlio. In realtà suo papà gli aveva versato giusto due dita, mentre per sé aveva riempito il bicchiere fino all'orlo. A Zeno sembrò di essere un adulto e, sorseggiando quel vino fresco e profumato, chiacchierò con suo padre di lavori agricoli, delle tante cose da fare, della scuola e tanti altri discorsi da grandi.
Il fuoco, elemento primordiale, era sempre piaciuto a Zeno. Però, per esempio, di falò in spiaggia non ne aveva mai fatti, quelle erano situazioni per turisti e buontemponi che volevano fare colpo sulle ragazze, gente che non si doveva svegliare presto il giorno seguente. Mentre Zeno al mare ci andava sempre in giornata, spesso in autobus, talvolta in motorino e raramente in bicicletta. Partiva al mattino e rientrava verso sera, con il corpo sudato e bollente per l'insolazione.
I fuochi che Zeno amava di più era sostanzialmente due. Uno era quello della domenica, che si accendeva per preparare le braci per la grigliata. L'altro era il tradizionale falò della Befana, a inizio anno, un'usanza tipica del Nordest che consiste nel bruciare, di solito alla vigilia dell'Epifania, grandi cataste di legno sormontate da fantocci raffiguranti una vecchia o un vecchio. E' un rito propiziatorio per i raccolti delle campagne, tutt'oggi molto diffuso e sentito da quelle parti. Si brucia la vecchia o il vecchio che rappresenta l'anno appena passato e, in base alla direzione del fumo e delle faville, venivano sentenziate le previsioni per l'anno nuovo.
Nel Basso Piave il falò, in segno di augurio e abbondanza, si chiama volgarmente panevìn.
Zeno adorava ascoltare, tutti gli anni, sempre gli stessi canti contadini che si intonavano davanti al fuoco. Sembravano quasi dei lamenti: "El panevin! Faive a levante panoce tante, faive a ponente panoce niente!!".
In base alla direzione delle faville (faive) si sarebbe intuita la bontà dei futuri raccolti (panoce, pannocchie, granoturco).
C'erano diversi panevin in paese, ma Zeno da sempre andava a quello organizzato dalla famiglia Corona, che abitava vicino alla sua via. I Corona erano contadini da generazioni e abitavano in una vecchia casa colonica con una grande aia, dove la sera del 5 gennaio veniva bruciato un altissimo falò. Sembrava di essere dentro il film Novecento o L'albero degli zoccoli.
Zeno ci andava però soprattutto per lui, Fabrizio, soprannominato "Tappo", e per il suo show. Fabrizio aveva settant'anni e aveva un leggero ritardo mentale e ora viveva in quella casa, in cui era nato, con i nipoti che lo accudivano. Fabrizio era anche molto basso e per questo, goliardicamente, visto il cognome, era da sempre per tutti "Tappo Corona".
Ogni anno durante il panevin Fabrizio si esibiva in una specie di numero circense per intrattenere il pubblico, dopo il quale iniziava ufficialmente la festa con infiniti brindisi che a sentire gli schioppi delle bottiglie di prosecco stappate in continuazione sembrava di essere in guerra.
Tappo Corona usciva di casa portandosi una sedia robusta. La piazzava a pochi metri dal falò ardente, si ancorava con le mani alla seduta e poi faceva la verticale sulla sedia, rimanendo per diversi secondi appoggiato solo con la testa.
Zeno assisteva a questa scena da quasi quarant'anni, era il suo rito di inizio anno. Dopodiché si passava al prosecco, agli affettati caserecci che i Corona offrivano ai presenti, al vin brûlé, alla pinza, dolce tipico con i semi di finocchio e la grappa.
E Zeno pensava a quanto gli fosse cara quella campagna ancora così antica, ignorante e autentica.
(continua)
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